martedì 29 maggio 2012

Lupin

La vita in ospedale, come vi ho già accennato, è una vita di compromessi. Tra medico e paziente, tra medico e infermiere, tra pazienti e infermieri, e via discorrendo. Tu vuoi che ti tolga il catetere, io ti dico di no ma in cambio ti concedo di cominciare a sgambettare in giro con la supervisione del fisioterapista. Tu hai un diabete allucinante e vorresti vivere solo di biscotti, io te ne concedo qualcheduno se ti fai cambiare la medicazione senza far storie. Compromessi, appunto.
Nella maggior parte dei casi, questo metodo funziona abbastanza bene. Ovvio, il paziente tende a chiedere sempre di più e il medico talvolta pecca di eccessiva prudenza, ma alla fine si riesce spesso a trovare una qualche sorta di equilibrio dinamico, che soddisfa in maniera sufficiente tutti quanti.
Quando il compromesso fallisce, però, è un dramma.


Prendete Lupin. Lupin è stato ricoverato per fratture multiple, ed ha passato un periodo di tempo considerevole bloccato a letto come uno stoccafisso. Naturale che, nel momento in cui ha cominciato a sentirsi meglio, la sua prima richiesta sia stata quella di potersi alzare. (Richiesta, a latere, che ha fatto seguito a diversi tentativi di evadere dalle sbarre del letto alle tre del mattino, causando scompensi notevoli alle povere infermiere del turno di notte.)
Nel suo stato di salute, però, andare a fare la maratona di New York era abbastanza sconsigliabile, per cui, dopo lunghi tira e molla, siamo arrivati (giustappunto) ad un compromesso: il dottore gli ha permesso di farsi mettere sulla sedia a rotelle, in modo che potesse girellare per il reparto senza correre il rischio di cadere e fracassarsi come una statuetta di porcellana.


Per un po' è andata bene così. Poi, quando la novità della carrozzella gli è venuta a noia, Lupin ha deciso di movimentare un po' la situazione. La richiesta più pressante, negli ultimi tempi, riguardava la possibilità di poter fumare; attività che, in un reparto di ospedale, viene sempre guardata con una certa repulsione.
Il primo ostacolo è stato quello di procurarsi le sigarette. Con grande abilità, bisogna dirlo, Lupin ha fatto tanto da riuscire ad impietosire uno dei parenti del suo vicino di stanza, che di nascosto dai medici e dalle infermiere ha contrabbandato un pacchetto di Marlboro tra le maglie dei severissimi controlli della caposala. E passi.
Quindi, è venuto il momento di farsi dare il permesso di uscire. Forte del successo precedente, Lupin ha cominciato a mendicare aiuto dai pochi pazienti deambulanti per farsi aprire le porte del reparto, cosa che gli riusciva abbastanza difficile dalla sua sedia a rotelle (si tratta di porte tagliafuoco, giusto per contestualizzare). Stavolta gli è andata male, perché i medici l'hanno beccato sul nascere ed hanno proibito tassativamente a chiunque di aiutarlo nella sua impresa, ma lui non si è dato per vinto. Dai e dai e dai, tra suppliche, preghiere e giuramenti di comportarsi bene, è riuscito a strappare il permesso ad uno dei nostri dottori, guadagnando così l'agognato ascensore che lo portava al piano terra del padiglione.


Pareva finita lì. Se non che, come spesso accade quando ci si calano troppo le braghe, è successo il patatrac. Ammetto di non poter raccontare l'episodio in prima persona perché è accaduto in un giorno festivo, ma ho sentito dei resoconti abbastanza esaurienti da potervi rendere l'idea.


Insomma, un giorno Lupin esce per fumare la sua ennesima sigaretta. Un'infermiera gli apre le porte del reparto e lo guarda scendere con l'ascensore, dopo le solite raccomandazioni. Lui annuisce e promette. Tutto a posto.
Prosegue la routine quotidiana. Le infermiere trottano da un capo all'altro del reparto per accudire i malati. Qualcuno si accorge che Lupin non è nella sua stanza, ma ultimamente non è una novità: quell'uomo è un tabagista talmente accanito che spesso la sua "pausa sigaretta" si moltiplica peggio dei pani e pesci nella parabola del Vangelo.
Passa circa un'ora prima che a qualcuno venga il dubbio. Partono le domande, qualcuno scende al piano terra a controllare, ci vuole poco per assimilare la cruda verità: Lupin è evaso. Chiamate Zazà!


Fortunatamente, se l'inventiva non gli fa difetto, altrettanto non si può dire della pianificazione. L'evasione è stata infatti progettata senza tener conto di un dettaglio fondamentale: che un uomo in pigiama, seduto su una carrozzina, con un braccialetto identificativo al polso, ha poche possibilità di passare inosservato nei pressi di un ospedale.
Per farla breve, Lupin è stato riacciuffato a circa duecento metri dal punto di partenza, mentre spingeva di buona lena la sua sedia a rotelle per uscire dal perimetro dell'ospedale. La nostra versione di Zenigata (un'anima buona che si stava spostando da un padiglione all'altro e che ha avuto la prontezza di riflessi di placcarlo quando ha intuito l'accaduto) lo ha impacchettato e rispedito mogio mogio al mittente, dove è stato amorevolmente accolto dalle nostre infermiere. O almeno, da quelle che si erano già riprese dall'infarto.


Vi lascio immaginare la reazione del medico che gli aveva dato il permesso di usare la carrozzella, quando le infermiere lo hanno aggiornato sul tentativo di evasione. La punizione è stata il carcere duro, ossia il divieto di muoversi dal letto fino alla fine del suo soggiorno. Non posso negare di essermi trovata d'accordo, sia chiaro.
Se non che, poco dopo il cazziatone, mi è capitato di passare davanti alla sua stanza per caso e di sorprenderlo con una gamba già fuori dalle sbarre. Io l'ho guardato, lui mi ha guardato, poi ha sospirato ed è tornato a stendersi. Per ora, dicevano i suoi occhi.


Oh, sarà una lunga degenza.

mercoledì 23 maggio 2012

La Monella

È sempre piacevole vedere un paziente andarsene sulle sue gambe. Ovvio, i medici non hanno la bacchetta magica, ma assistere alla guarigione di qualcuno è un'ottima iniezione di autostima, anche se il tuo contributo si è limitato a prendere la pressione tutti i giorni ed annuire con aria saputa ai commenti dei veri medici.
Se poi il paziente in questione ti è arrivato con un piede nella fossa e l'altro su una saponetta, e se ne va in piedi e con il sorriso sulle labbra, allora ti senti come se non avessi altro da chiedere al mondo.


Oggi abbiamo avuto una dimissione di questo tipo, quindi direi che la giornata è stata veramente ottima. Sono così di buon umore che ve la voglio raccontare, anche perché sono sicura che questa signora mi mancherà molto. A favore del pubblico, la chiamerò la Monella.


La Monella è stata una bella tribolazione. Il soprannome che le ho dato (niente a che fare con i film di Tinto Brass, si tratta di una rispettabile vecchietta - giusto per chiarire!) già dovrebbe farvi capire il tipo di persona, ma per descrivervela meglio mi limiterò a dirvi che è una persona abituata a fare le cose a modo suo. Non che fosse arrogante o antipatica, niente di tutto ciò: nella prima settimana che è stata da noi mi ha ingozzato di canestrelli fino a farmi venire il diabete, ma non mi sono certo lamentata (poi il figlio ha smesso di portarglieli, con mio grande scorno). Semplicemente, ha quell'aria da furbetta che, mista a lusinghe e a gentilezze, ti obbliga a comportarti esattamente come vuole lei.
Per esempio, dopo la prima settimana di degenza (in cui aveva addosso tanti di quei tubi che sembrava un albero di Natale) ha cominciato a sentirsi meglio e a fare delle richieste, tra cui quella che le venisse tolto il catetere. Non so più quante volte mi sono seduta sul letto e le ho spiegato che, nelle sue condizioni, il catetere era una mano santa: lei annuiva e sorrideva, mi faceva una carezza, dopodiché aspettava che entrasse una delle colleghe e ricominciava con la solfa.


"Dottoress-ssa!" cominciava a cantilenare, come una filastrocca, con un sorriso allegro. "Quand'è che me lo togliete il catetere?"
Qualunque fosse la risposta (di solito una versione edulcorata di "Non adesso"), lei non smetteva di sorridere e scrollava la testa. "Ma io ci vado in bagno da sola, sa? Faccio tanta pipì!"
Se vedeva che non attaccava, dopo un po' metteva il broncio. "Guardi che un giorno o l'altro me lo tolgo da sola!"
A quel punto, non restava che stare al gioco. "Guardi che lo dico a suo figlio!"
"Mio figlio può andare a quel paese, come l'ho fatto vedrà che lo disfo! E poi, col catetere non riesco a camminare."
"Ma se l'ho vista camminare un minuto fa!"
"Ma mi sta scomodo, mi si impiccia da tutte le parti. Poi gli altri uomini mi vedono col tubo che esce e mi vergogno!"
"Ma che le importa degli altri uomini, alla sua età?"
"Alla mia età sono ancora in grado di metterli a posto, gli uomini!"


Altre volte, la prendeva la foga di andare a casa. Posso anche capirla, si sarà sentita così bene rispetto alle ultime settimane che le sembrava di essere rinata, ma la prudenza consigliava di tenerla in osservazione un altro po'. Peccato che...
"Dottoress-ssa! Quand'è che mi mandate a casa?"
Vi risparmio la solfa della spiegazione, tanto la risposta era sempre la stessa. "Ma io a casa ho la mia cagnolina che mi aspetta! Poi se non ci sono si sente sola e piange!"
"La cagnolina è con suo figlio, non si deve preoccupare..."
"E poi tra poco c'è il battesimo di mia nipote! Dovete mettermi in piedi, se no come faccio ad andarci?"
"Manca più di un mese al battesimo, vedrà che ce la fa..."
"E poi mio figlio ha detto che mi vuole mandare in una casa per fare la riabilitazione. Giuro che se ci prova mi butto giù dalla finestra! Anzi, butto lui giù dalla finestra!"


Un giorno siamo perfino riusciti ad ottenere un permesso straordinario dal primario per portare la cagnolina a salutare la Monella. Avreste dovuto vederla! Lacrime, baci, il cane che si impiccava col guinzaglio dalla gioia... Peccato che la caposala si è impuntata e l'ha fatta sloggiare dopo pochissimo. Da quel giorno, tutte le volte che la incontrava nel corridoio la Monella si esibiva in un repertorio di linguacce e gestacci da asilo nido, ma non si poteva sgridarla: gonfiava le guance, incrociava gli occhi e tirava fuori la lingua, e sinceramente avevo già il mio daffare a morsicarmi le guance per non scoppiarle a ridere in faccia.


Finalmente, oggi è tornata a casa sulle sue gambe, solo con l'aiuto del bastone. Quando l'ho incontrata nel corridoio per farle le congratulazioni, è scoppiata a piangere ed ha insistito per abbracciare e baciare tutti i dottori e le infermiere del reparto (tranne la caposala, ovviamente). Ha giurato che si sarebbe tenuta in contatto con il centro di riabilitazione, ma aveva in faccia la stessa espressione di un bambino che giura di non toccare più il vaso della Nutella... Beh, comunque le auguro di vivere fino a cent'anni senza tornare mai più in ospedale. Una come lei se lo merita.

martedì 15 maggio 2012

Lo Smilzo

Puoi essere il medico più bravo del mondo, ma non conoscerai mai il tuo reparto bene come gli infermieri.
Non è un demerito, è una pura questione di metodo. Il medico, solitamente, rimane in reparto quel tanto che basta per svolgere il suo compito: visitare i pazienti, parlare con i parenti, sbrigare tutte le faccende burocratiche (il che ti porta via almeno lo stesso tempo che fare tutto il resto, se non di più). Dopodiché, una volta finite le sue mansioni, di solito il medico se ne va, perché è abbastanza inutile che rimanga lì a fissarsi l'ombelico. Fermo restando, ovviamente, che per ogni evenienza rimane sempre il medico di guardia.
Gli infermieri, invece, hanno una routine diversa. Siccome il reparto non può andare avanti senza di loro, ma al contempo nessuno è singolarmente indispensabile, hanno adottato la soluzione migliore: fanno i turni. Perciò, può capitare di entrare in una corsia e trovarla priva di medici, ma non vi capiterà mai di dover cercare gli infermieri.


Tutto questo per dire: futuri medici, quando vi troverete in reparto, fidatevi sempre degli infermieri.


Io questa finezza non la conoscevo. Voglio dire, non è che non mi fidassi degli infermieri, ma quando le loro osservazioni collidevano apertamente con le mie tendevo a fidarmi di me stessa e buonanotte.
Per esempio, c'era questo paziente, lo Smilzo. Le infermiere lo descrivevano come un vero demonio, una bestia scatenata in grado di far inacidire il latte e provocare aborti con la sola potenza dello sguardo. Io, ecco, avevo qualche dubbio. Tutte le volte che entravo nella sua stanza, timida e niubba con lo sfigmomanometro in mano, trovavo questo vecchietto mezzo assopito sul letto, con le briciole della colazione in grembo, che mi faceva sempre un sorriso mentre io lo tormentavo con gli strumenti del mestiere. Perciò, la situazione più semplice mi era sembrata che le infermiere non sapessero come prenderlo, oppure, in alternativa, che io gli fossi particolarmente simpatica.
Sì, brava allocca.


La verità mi è apparsa d'un lampo in una fredda mattina di un paio di settimane fa. Sono arrivata alla solita ora, molto presto, e come al solito ho cominciato il mio giretto preliminare per farmi un'idea della situazione e per prendere le prime pressioni. Ero così intenta nel mio compito (o forse così addormentata... ecco, così suona meglio) da non accorgermi di un particolare piccolo ma fondamentale, un qualcosa che non era al solito posto, uno di quegli enigmi della serie "Trova le 20 differenze".
Nel corridoio non c'era il carrello delle colazioni, vuoto, in attesa di recuperare i vassoi dei pazienti.


In due parole, da noi tutti i pasti sono affidati ad un'azienza esterna, che ogni giorno gira col suo camioncino e scarica questi bei vassoi fumanti davanti ad ogni reparto. Se non che, quella mattina, al camioncino si è bucata una ruota, o è caduto in un fosso, o quello che è, sta di fatto che non è arrivato.
Io avevo fatto colazione da poco, ero in piedi da circa un'ora e sveglia più o meno da dieci minuti, perciò non ci ho fatto granché caso. Ma qualcun altro sì. Oh, se ci ha fatto caso.


"Ho fame."
Mi sono interrotta mentre misuravo la pressione dello Smilzo, perplessa. La sua espressione aveva un cipiglio che non avevo mai visto, e non mi aveva salutato quando ero entrata in stanza. Ma avevo lo stetoscopio nelle orecchie, e non avevo sentito bene.
"Come, scusi?"
Si è girato a guardarmi, con aria truce. "Ho fame!", ha ripetuto.
Io ho scrollato le spalle in segno di scusa. "Non le hanno ancora portato da mangiare? Beh, arriveranno presto, sono sicura."
Certa di essermela cavata a buon mercato, ho posato di nuovo la mano sul braccio dello Smilzo. Che per poco non me la stacca con un morso.
"HO FA-ME!! PORCA MISERIA! DATEMI DA MANGIARE! MANNAGGIA!!"


...no, non ha detto "porca miseria". E neanche "mannaggia", in realtà. Ma questo è un blog rispettabile, quindi mi permetto di censurare le espressioni che potrebbero nuocere ad un pubblico troppo sensibile. In fondo, anche questo è occuparsi della vostra salute!


Comunque, per farla breve, ci sono volute tre infermiere, un medico nerboruto e un visitatore che passava di lì per ricondurre lo Smilzo alla ragione. Ah, e la colazione, ovvio.
Per far riprendere me dallo spavento, invece, c'è voluto un tè, mezz'ora di coccole ed un numero imprecisato di sigarette. Oltre alla promessa, da parte di tutto il personale sanitario, di non farmi mai più entrare da sola nella stanza di quel cannibale.


Morale, a futura memoria di medici, studenti, pazienti e parenti: fidatevi sempre degli infermieri. Sempre. Hanno visto cose che noi umani non possiamo neanche immaginare.

sabato 12 maggio 2012

I miei matti

Questo post apre una parentesi sulla mia esperienza elettorale. Che c'entra?, direte voi. C'entra, ed ora vi spiego perché.

Da quattro anni sono registrata nelle liste dei presidenti di seggio elettorale. Potrei darvi motivazioni molto nobili per questa scelta, ma la realtà è che cerco semplicemente di tirare su qualche soldo in più per non arrivare impiccata al momento dei regali di Natale. Sembra una scelta stupida, ma vi assicuro che con il ritmo elettorale che abbiamo qui in Italia (una volta le politiche, poi le amministrative, il Parlamento Europeo, i referendum...) non sono mai rimasta un anno a casa.
Comunque, sfiga vuole che mi abbiano assegnata, ormai permanentemente, ad un seggio speciale, il che ha pro e contro: da un lato c'è il vantaggio indiscutibile che lavoro solo per una mattina e un pomeriggio, invece di smazzarmi tutta la durata delle elezioni e degli scrutini come i miei colleghi; dall'altro, c'è che in confronto a uno scrutatore di un seggio normale (per non parlare dei presidenti) mi pagano una miseria. Ma vabbè.


La cosa divertente, almeno dal punto di vista di questo blog, è che il seggio a cui sono assegnata ormai da quattro anni si occupa di far votare i pazienti di una casa di riposo, il che dimostra che non si può sfuggire al karma. Questa residenza ospita fondamentalmente due categorie di persone: anziani che non sono più autosufficienti, per problemi fisici o (più frequentemente) mentali, e pazienti anche più giovani che però sono affetti da importante ritardo mentale fin dalla giovane età. Io li chiamo, amorevolmente, "i miei matti". E qui cominciano i miei guai.


Ora, chiariamo subito un punto fondamentale: il diritto al voto è sacrosanto ed appartiene a tutti i cittadini italiani, indipendentemente dalle loro condizioni sociali o di salute. Quindi, non è di questo che mi sto lamentando. (Oltretutto sono pure pagata, quindi, a rigor di logica, non dovrei lamentarmi affatto.) Le mie perplessità vertono soltanto sull'utilità di andare a raccogliere il voto di persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno la minima idea di cosa, come e perché stanno votando.


Esagerata, dite? Lasciate che vi faccia un breve resoconto di una qualunque giornata elettorale di questi ultimi quattro anni, e poi decidete.


"Buongiorno! Ecco la scheda elettorale e la matita, può andare a votare nella cabina."
"Come devo fare per votare?"
Groan. "Deve mettere una X sul nome del candidato o sul simbolo del partito che ha scelto."
"Ma io non so leggere!"


"Buongiorno! Ecco la scheda elettorale e la matita, può andare a votare nella cabina."
"Come faccio per votare Ciccio Pistacchio?"
"Ehm... veramente, non dovrebbe dirmi per chi vuole votare. Comunque, deve mettere una X sul nome del candidato che ha scelto."
(Sì, lo so che il voto è segreto. Lo so che manifestare apertamente la volontà di voto è un motivo sufficiente per espellere l'elettore dal seggio. Ma sinceramente, ritenete che ci sia una qualche possibilità che possano capire perché li sto espellendo? Andate avanti a leggere, e nel caso fatemi causa.)
"Senta, facciamo che non ho sentito niente. Per favore, metta solo una X sul candidato che vuole votare, senza dirmi chi è."
"Ah. Ma devo scrivere anche Ciccio Pistacchio?"
Aridaje. "Non mi deve dire chi vuole votare. E non deve neanche scrivere il nome, se è già presente come capolista."
"Eh, ma poi come fanno a sapere che volevo votare proprio lui?"


"Buongiorno! Ecco la scheda elettorale e la matita, può andare a votare nella cabina."
Prende la scheda, si apparta in cabina, scribacchia per un po'. Poi esce dalla cabina, sventolando la scheda. Ovviamente aperta.
"Fermo! Per favore, deve chiudere la scheda, prima di consegnarmela. Torni dentro e la pieghi, la prego."
Ubbidiente, torna dentro. Esce dopo qualche secondo, con la scheda piegata. Al contrario.
"No, non così! Deve piegarla in modo che io non veda i simboli... cioè, i simboli devono stare all'interno della scheda, non all'esterno..."
Mi guarda confuso. Lancio uno sguardo supplichevole al mio scrutatore, che con santa pazienza si alza, prende la scheda e la piega goffamente ad occhi chiusi, per non vedere il voto. Anche questa potete aggiungerla alla mia fedina penale, se volete.



"Buongiorno! Ecco la scheda elettorale e la matita, può andare a votare nella cabina."
"Cosa si vota, oggi?"
"Si vota per il sindaco. Deve fare una X sul..."
"Il sindaco di dove?"



"Buongiorno! Ecco la scheda elettorale e la matita, può andare a votare nella cabina."
Prende la scheda ed entra nella cabina. Io finisco di trascrivere il numero della tessera e del documento. Alzo la testa, ma è ancora dentro.
Già che ho tempo, faccio un controllo incrociato tra il numero degli elettori iscritti e quelli che hanno effettivamente votato. Tutto a posto. Lui è ancora dentro.
Mi stiracchio un pochino, conto le schede che ci sono rimaste. Offro una cicca allo scrutatore. Lui è ancora dentro. Comincio a preoccuparmi.
"Tutto bene, lì dentro?"
Silenzio.
"Signore? Si sente bene?"
"Non ci vedo."
"Eh?"
"Non ci vedo!"
"Come, non ci vede?"
"Eh no che non ci vedo, c'ho la cataratta!"


"Buongiorno! Il suo nome, prego?"
"Mmmffghfgg."
"Benissimo. Scrutatore, caro, mi cerchi se nel mucchio delle carte d'identità c'è qualcuno che gli assomiglia?"

martedì 8 maggio 2012

Lady Gaga

Oggi cambiamo argomento. Così per non annoiarci, dopo tutti i pazienti che ho bistrattato in queste pagine, vi parlerò anche di un parente.


I parenti, ahimé, non si scelgono. In tutte le famiglie c'è almeno un elemento (se siete fortunati) che spazia dal bizzarro all'odioso al fuori di testa. È la ragione per cui le riunioni di famiglia sono poco tollerate, in genere... almeno, per me è così. Il fatto è che mi vien da pormi una semplice domanda: caro zio/cugino/nipote acquisito alla lontana, ci sarà o no una ragione se ci vediamo una volta ogni morte di Papa? Sì, c'è, e ti assicuro che non è il caso. Fatti due domande.


Comunque, sto divagando.


La questione diventa esponenzialmente più drammatica quanto più il suddetto pazzo furioso è di un grado di parentela vicino a te. Immaginatevi il dramma quando, come in questo caso, si tratta di una figlia.
Lady Gaga è... beh, è Lady Gaga, nomen omen, solo una sessantina di chili più grassa dell'originale. Già a guardarla si intuisce che è un pericolo pubblico, una specie di untore dell'epilessia. La prima volta che l'ho vista, nella sua tutina di un fuxia sgargiante con gli strass, sulle prime ho pensato che mi fosse venuto un tumore al cervello; poi, realizzato che quello che stavo guardando era vero, ho sperato che mi fosse venuto un tumore al cervello, in modo da potermene andare velocemente e senza soffrire.


Lady Gaga sa creare il vuoto attorno a sé con la stessa velocità con cui Marzullo è in grado di farti addormentare. Le infermiere la temono, i dottori la schivano, sua madre... beh, sua madre la subisce, povera stella, e ammetto di provare una certa pietà per lei.


E poi, siccome le disgrazie arrivano sempre a tre per volta, c'è la sua voce. Quando Lady Gaga parla, i cani maledicono l'evoluzione che li ha resi capaci di udire gli ultrasuoni, e stormi di pipistrelli volano via terrorizzati. (Tra parentesi, nell'ospedale in cui lavoro ci sono davvero i pipistrelli. Non so se scappino realmente, quella parte me la sono inventata, però ci sono.)
Ha quel dolce tono di voce in grado di bucare il cristallo, unito al volume del barrito di un elefante che improvvisamente si trova davanti un topo. Il che darebbe fastidio ovunque, ma in un ospedale, dove, per definizione, la gente sta male ed ha bisogno di riposo, la questione assume le proporzioni di una tragedia.


Il problema, lo capirete anche da soli, è che non è facile farglielo notare. Un po' per educazione, a nessuno piace sentirsi dire che la propria voce è piacevole come un trapano puntato al lobo temporale, e un po' - almeno da parte mia, non garantisco sui miei colleghi - anche per terrore.
Per ora, quindi tiriamo avanti a soffrire. Verremo ricompensati in Paradiso, lo so, ma che fatica.

giovedì 3 maggio 2012

Slimer

Per quanto mi riguarda, posso dire di essere una persona abitudinaria. I cambi di programma mi mettono di cattivo umore; pensate solo che da otto anni vado sempre nello stesso bar tutti i venerdì e sabato sera... giusto per darvi un'idea.
Probabilmente il problema è che ci metto un po' ad acclimatarmi, quindi mi scoccia buttare via tutta la fatica che ho fatto per crearmi il mio nido in un determinato ambiente. Sta di fatto che penso di aver scelto il mestiere giusto, perché in ospedale, in media, la vita è piuttosto routinaria. Sempre il solito tran tran, per così dire.


Con le debite eccezioni.


Prendete stamattina, per esempio. Stavo facendo il mio solito giro, anzi, ero impegnata a compilare una cartella clinica in mezzo al corridoio, cercando di mettere le parole giuste al posto giusto in un italiano dignitoso. (Tra parentesi, imparare a redigere il diario clinico di un paziente è una cosa veramente umiliante, perché sai benissimo che tutte le castronerie che scrivi rimarranno impresse per sempre su quella pagina, esposte al pubblico ludibrio, in omnia saecula saeculorum.)
Comunque, ero lì che mi facevo i fatti miei, quando all'improvviso uno strano rumore mi arriva alle orecchie. Una specie di "sblargh, glergh, sblurgh".


Ora, siamo d'accordo che con tutto quello che vi ho raccontato (e ancora di più con quello che non vi ho ancora raccontato!) non dovrei stupirmi più di niente, ma devo ammettere che ho avuto un secondo di confusione. Mi sono bloccata un attimo, in ascolto.


"Guargh, blergh, sburgh"


Sembrava - ve lo giuro, non me lo sto inventando - uno Slimer con la raucedine. Ho lanciato uno sguardo di orrore alla specializzanda, che non sembrava meno stupita di me. Poi sono riuscita a identificare la fonte, e sono andata a sbirciare nella stanzetta in fondo al corridoio, con addosso una vaga inquietudine.
Con un occhio che sporgeva dallo stipite della porta, ho individuato la schiena di una giovane operatrice sanitaria che stava cambiando le lenzuola al letto di quella stanza, mentre qualcosa si agitava nel mezzo. Di nuovo quel suono: "Blurgh, sglargh, blergh". La ragazza si è scansata un momento, ed io ho intravisto per un attimo una vecchina magra sul letto, ma inizialmente ho fatto fatica ad associarla a quel suono. Voglio dire, anche psicologicamente, c'è una certa differenza tra una vecchietta pelle e ossa ed il verso gutturale del Mostro della Palude.


Nel frattempo, la specializzanda si era avvicinata anche lei, incuriosita. "Ma cos'è, un Gremlin?" l'ho sentita mormorare al mio orecchio, con un filo di nervosismo. Siamo rimaste lì, appese al montante della porta, ad osservare la scena e a farci coraggio a vicenda.


L'OS si è avvicinata alla vecchietta per cambiarle il pannolone, e ce l'ha nascosta per un attimo. In quel momento, per la corsia è risuonato un "BLLLAAAAAAARGHHH", seguito dall'urlo di dolore della povera ragazza.
"Ma che fai, mordi?!" ha guaito l'OS, massaggiandosi la mano ferita. "Gullugluglurgh!!" è stata la risposta infuriata di Slimer. La ragazza, che aveva tutta l'aria di averne avuto abbastanza, ha finito in fretta e furia il suo lavoro, mentre io e la specializzanda - poco rispettosamente, lo ammetto - ci stavamo morsicando a sangue le guance per evitare di rotolare per terra dal ridere.


Alla fine, l'OS l'ha ricoperta con le lenzuola ed è filata via, trascinandosi dietro la biancheria sporca. Io ho fatto per girarmi e tornare al lavoro - la specializzanda, che è molto più assennata di me, l'aveva già fatto da un po' - quando Slimer si è girata e mi ha visto.
"Bluggurrug!" mi ha gridato.


Mi domando se sia possibile prenderlo come nome di battesimo. Ma non sono del tutto sicura che ci sia il santo.

martedì 1 maggio 2012

In attesa di altre nuove...

Ehilà! Scusate se non mi sono fatta sentire in questi giorni, ma oggi è il primo maggio anche per me. In realtà sono cinque giorni che non vado a controllare i miei vecchietti, spero tanto che stiano tutti bene! Comunque, domani, nel bene o nel male, mi toglierò il dubbio.


Mentre aspetto di raccogliere nuovo materiale per la vostra delizia, approfitto per segnalare a tutti che è nata la pagina Facebook dedicata a questo blog (la trovate cliccando sul link). Fateci un giro, se vi va, in modo da rimanere sempre aggiornati sui nuovi post e su molti altri link di siti amici.


Alla prossima!