venerdì 31 agosto 2012

Dalla parte degli studenti

La vecchiaia è sicuramente l'età della vita che la maggior parte della gente trova più repellente. È triste, ma è così. Il nonno fa tenerezza solo quando ti allunga la caramella o i 50 euro, ma nel momento in cui si trova ad aver bisogno, nella maggior parte dei casi, diventa un peso insopportabile.

Eppure, la maggior parte della gente non sembra rendersi conto di quanto sia assurda questa mentalità. Ricordo ancora che, il primo giorno di lezione al corso di Geriatria, il nostro prof si presentò a noi con un aneddoto, che qui cerco di riportarvi per intero:
"Io ho una paziente molto impegnativa. È assolutamente incontinente, per cui ha bisogno di essere cambiata spesso. Non è in grado di nutrirsi da sola, e non riesce ad esprimersi correttamente, perciò se sta male o prova dolore da qualche parte non ha modo di comunicarcelo con esattezza. In più, non riesce a camminare e ha difficoltà ad eseguire anche i movimenti più semplici. Per questo motivo, necessita di assistenza continua ventiquatt'ore su ventiquattro."

Un attimo di silenzio per figurarci la situazione, poi ha aggiunto: "Questa paziente è mia figlia, che ha cinque mesi."

Da quando l'ho ascoltata per la prima volta, questa storia non mi è mai più uscita dalla testa. È incredibile la rassomiglianza tra gli anziani e i bambini piccoli, ed è ancora più incredibile la disparità di trattamento che ricevono.
Pensate ad un neonato che fa le bolle con la saliva, che rigurgita il latte o anche che fa la pipì dappertutto: ognuno di questi comportamenti viene accolto con un sorriso e una scrollata di spalle. "È pipì di angelo", diceva la mia nonna.
Ora pensate ad un anziano che fa tutte le cose di cui sopra. E non aggiungo altro.

Comunque, la parte divertente di tutto ciò è assistere alle reazioni degli studenti che si trovano a passare, per qualche giorno, nel mio reparto.

Un po' di contesto: gli studenti di medicina vengono obbligati, durante la seconda metà del corso, a passare qualche settimana in diverse corsie ospedaliere. Se comincio a lamentarmi dell'idiozia con cui questa opportunità, peraltro importantissima, viene gestita dai medici e dai professori, non la finisco più; perciò, vi basti sapere che spesso i poveri studenti scelgono la corsia un po' a casaccio, nella speranza di trovare qualche anima pia che insegni loro qualcosa di utile, invece di comportarsi (come avviene nel 99% dei casi) come se fossero invisibili. Gli studenti amano definire la loro attività in corsia come "Reggere i muri", per sottolineare l'importanza del loro compito.

Dicevo, alcuni di questi studenti a volte capitano anche da noi, ed allora è un vero e proprio divertimento. Perché, come vi dicevo prima, la geriatria non piace a nessuno, e i ragazzi, specie i più giovani, non sono ancora molto bravi a nascondere le loro vere opinioni dietro una perfetta faccia da poker.

(N.B.: premetto che il reparto in cui mi trovo è uno dei pochi, e per pochi intendo davvero pochi, dove i dottori e gli specializzandi prendono davvero a cuore queste povere pecorelle smarrite e perdono qualche minuto, e nel mio caso anche di più, ad insegnare loro i rudimenti della medicina. Perciò, mi sento del tutto in diritto di prenderli un pochino in giro, perché, con le esperienze che ho avuto io in prima persona negli altri reparti, dovrebbe esserci la fila fuori dal nostro padiglione.)

Il più delle volte basta guardarli, per farsi intimamente qualche risata. Di solito, per esempio, agli studenti più giovani spetta il compito di prendere la pressione ai pazienti, per la doppia ragione di fargli fare un po' di pratica e dar loro qualcosa da fare che non provochi troppi danni se sbagliano.
Purtroppo, senza l'ausilio di fotografie non posso descrivervi in maniera efficace le loro espressioni, perciò cercherò di immaginare che cosa gli passi per la mente durante una visita normale.

Studente: "Buongiorno, signora."
Paziente (mezza addormentata): "Hmmmf?"
Mio dio, che faccia che ha... Ma le avranno cambiato il pannolone? Oh, cielo, che odore...
S: "Le prendo la pressione, va bene?"
P: "Eh?"
S: "LE PRENDO LA PRESSIONE!!!"
Occhei, ora tiriamo su la manica... Avrà mica qualche malattia? Oh, perché non ho preso i guanti? E che cos'è questa roba bagnata? Si sarà versata dell'acqua addosso... almeno, spero! Vabbè, mettiamo un po' questo bracciale...
P: "Che ore sono?"
S: "Le nove e mezza, signora."
P: "Eh?"
S: "LE NOVE E MEZZA!!"
Se solo la smettesse di muoversi, non sento niente...
S: "Signora, può stare... ehm, cioè... STIA CALMA, NON RIESCO A SENTIRE NIENTE!"
P: "...eh?"

A questo punto, di solito, il povero studente lancia uno sguardo omicida a me, alla specializzanda e alimortaccinostri che l'abbiamo mandato a prendere la pressione alla vecchietta più svitata del reparto. Io di solito faccio finta di niente, covando in cuor mio la consapevolezza che quella signora è una delle più tranquille del reparto, e che da quelle veramente svitate lui non sopravviverebbe tre minuti (io stessa ce la faccio a stento).
Ma me lo tengo per me.

La vera meraviglia, comunque, è chiedere la loro opinione. Perché lo studente di medicina è, nella maggior parte dei casi, una persona educata; ed anche quelli spocchiosi e maleducati, con cui mio malgrado mi sono trovata più volte a che fare, hanno comunque una certa soggezione dei medici e degli specializzandi del reparto in cui frequentano, e non osano dire quello che gli passa davvero per la testa.
Per esempio, qualche mese fa ho avuto una conversazione con una di queste studentesse, che era un po' attempata (parlo io, ma vabbè) e perciò l'avevo scambiata per una laureanda in cerca della tesi. Perciò, anche per farmi un'idea della concorrenza, le ho chiesto se le piaceva la geriatria.

Un lampo di terrore le ha attraversato gli occhi, mentre cercava una risposta. "B-beh... è molto... come dire... interessante, ecco."
A quel punto ho realizzato che si trattava di una studentessa ancora acerba, ma l'occasione era troppo ghiotta per lasciarsela scappare.
"Sai, si imparano moltissime cose, qui." Cose che sarebbe meglio dimenticare, dicevano i suoi occhi. Mi sono appoggiata al carrello, dove c'era la specializzanda che sfogliava una cartella, con lo stesso atteggiamento del chihuahua che fa lo spavaldo al sicuro tra le zampe di un alano, ed ho proseguito: "Vedi molte malattie diverse, impari bene la pratica... non è vero?"
"S-sì, sì, certo..."
"E poi i pazienti sono simpatici! Siamo proprio fortunati in questo periodo!"
"Sì, sono simpatici..." Si vedeva dai suoi occhi che non ce la faceva più, perciò si è buttata. "Sono solo... come dire..."
"Cosa?"
"U-un po'..."
"Un po' cosa?"
"...vecchi."

Nulla può il mio sarcasmo, contro tanta tautologia.

venerdì 10 agosto 2012

Violetta

E rieccomi qua! Torno con un po' di tristezza davanti al computer, pur scusandomi per la mia prolungata assenza, perché anche se agosto è appena iniziato le mie vacanze sono già finite. Ebbene sì. Ma, se non altro, il rientro è stato accompagnato da nuovi incontri in reparto, quindi alla fine non mi posso lamentare più di tanto.

Per ringraziarvi di essere tornati a leggere nonostante un mese e mezzo di mia assenza, voglio raccontarvi di cosa succede quando invece una persona perde le speranze. O meglio, di quando le perde senza ragione, visto che in caso contrario non ci sarebbe proprio nulla da ridere. Insomma, voglio parlarvi di Violetta.

Violetta è arrivata da noi quasi sotto silenzio, perché le sue condizioni erano tutto tranne che allarmanti. Era una signora molto giovanile, dalla parlantina vivace, che era stata trasferita in ospedale dal pensionato in cui si trovava per una bronchite. Ora, una bronchite ad una certa età deve sempre mettere in allarme, perché non si sa mai cosa può succedere, ma le cure prestate al pronto soccorso erano state molto efficaci e, quando noi l'abbiamo visitata, non abbiamo trovato nulla di preoccupante. Era stata solo una semplice bronchite, nulla più, da cui il soprannome.

(NdA: i classicisti, per favore, non mi saltino al collo. Lo so benissimo che Violetta - quella vera - è morta di tubercolosi, non di bronchite. Tuttavia, mi trovavo abbastanza sprovvista di paragoni calzanti, e inoltre, come vedrete, la tragicità della sua situazione non ha nulla da invidiare a quella della Traviata. Leggete e credetemi!)


Una traviata a caso.

Dunque, la visita è stata accurata ma abbastanza breve, anche perché la signora sembrava abbastanza tranquilla e collaborante.

Sembrava.

Non sono passati dieci minuti da quando io e il dottore avevamo ripreso il giro, che l'ho sentita chiamare.

"Dottore! Dottore!"

Sono andata a vedere cosa volesse, mentre il dottore finiva di visitare un altro paziente, e l'ho trovata appesa alle sbarre del letto con aria sofferente.

"Cosa c'è, cara?"
"Me lo leva questo affare?" ha guaito, mostrandomi il polso, dove gli infermieri del pronto soccorso le avevano lasciato la cannula della flebo. "Mi sta facendo impazzire!"
"Cara, sarebbe meglio di no, perché se poi dobbiamo farle un prelievo la dobbiamo bucare come un puntaspilli. Se non le fa male è meglio che lo tenga, va bene?"
Mi ha lanciato uno sguardo infelice, poi ha annuito. "Va bene, dottoressa."

Ho fatto a malapena in tempo a raggiungere il dottore, che ha ricominciato a chiamare.
"Dottore! Dottore!"
Questa volta mi sono fatta accompagnare dal dottore, e gli ho spiegato brevemente la situazione della flebo prima che entrassimo nella stanza. Non sto a descrivervi la scena successiva, perché è stata la fotocopia della prima: il dottore le ha ripetuto quello che le avevo detto io, e lei si è arresa di malavoglia.
Non avevamo fatto neanche dieci passi, però, che Violetta ha chiamato per la terza volta. A questo punto il dottore, rassegnato, non ha potuto far altro che accontentarla, raccomandandole alla fine di stare quieta per un pochino.

Sì, come no.

Saranno passati dieci minuti, forse, quando il lamento è ricominciato.

"Dottore! Dottore!"
Io ho guardato il dottore, il dottore ha guardato me, e il suo sguardo diceva pressappoco "Prova ad allontanarti da questo carrello e ti prendo a fucilate." Mi sono rassegnata a lasciarla lamentarsi per un po', ma non immaginavo che lei avesse già una strategia pronta.

Un attimo di silenzio, e poi: "Dottoressa bionda! Dottoressa bionda!!"
Era abbastanza chiaro a chi si riferisse, tanto chiaro che il dottore è scoppiato a ridere e mi ha dato il permesso di rispondere alla chiamata. Sono entrata nella stanza, un po' indecisa se ridere o offendermi, e l'ho trovata rannicchiata sul letto con un'espressione che avrebbe fatto piangere i sassi.


Ecco, giusto per rendere l'idea.
"Dov'è mio figlio?" ha pigolato, con una vocetta da stringere il cuore.
"Non lo so, stella." Ho cercato di tranquillizzarla come potevo: "Sarà al lavoro. Che lavoro fa?"
"Insegna all'università..."
"E allora starà lavorando, è orario di lezione."
La risposta non è sembrata rassicurarla granché, se devo essere sincera.
"Ma non viene a trovarmi?"
"Ma certo che viene, cara, arriverà più tardi."
Allora le si è accartocciata la faccia come un fazzoletto, e ha pigolato "Se arriva più tardi mi trova morta di sicuro!"

A questo punto, ammetto che sono rimasta abbastanza spiazzata. Mi era già capitato di dover tranquillizzare pazienti in gravi condizioni, ma non sapevo da dove cominciare a calmare una persona che chiaramente non aveva più nulla. Mi sono seduta sul bordo del letto, cercando di raccapezzarmi.
"Cara, non dica queste sciocchezze. Lei sta benissimo, perché dovrebbe morire?"
"Perché sono in ospedale" ha piagnucolato Violetta. Logica inappuntabile.
"Ma adesso è guarita, tra poco la manderanno a casa. Ha avuto solo una bronchite, non si muore per così poco!" (Ok, questa era una bugia, però a fin di bene.)
Insomma, dai e dai sono riuscita a convincerla che non era il caso di chiamare il parroco, e mi sono alzata dal letto. Lei si è allarmata immediatamente.
"Dove va?!"
"Devo andare a visitare gli altri malati, cara."
"Ah... va bene, allora."

Sono uscita dalla stanza e ho raggiunto il dottore, che nel frattempo aveva quasi completato il giro, parlato coi parenti e vinto tre premi Nobel. E ovviamente...

"Dottoressa bionda! Dottoressa bionda!!"

Il dottore non ha alzato neanche un sopracciglio. "Vuole te."
Nel frattempo, giusto per darvi un'idea, avevamo a un capo del corridoio un ultrà del Manchester United che chiamava la mamma a squarciagola più o meno da un'ora e mezza, e all'altro capo la Squaw (sì, sempre lei) in una delle sue esibizioni liriche migliori.

Sono rientrata meditando pensieri omicidi, e Violetta si è subito azzittita.
"Cosa c'è adesso, cara?"
"Quando arriva mio figlio?"
Ho chiamato a supporto tutti gli angeli del Paradiso.
"È al lavoro, cara, arriverà più tardi. Ora devo andare, però."
"Aspetti!" ha detto precipitosamente, per poi inalberare la faccia da gatto-con-gli-stivali. "Non vuole restare a farmi un po' di compagnia?"
Qualcosa si è sciolto in questo vecchio cuore acido. "Cara, mi piacerebbe tanto, ma ci sono altre persone che stanno male. Devo andare a visitare un po' anche loro. Le prometto che torno presto, ma lei ora deve stare buona qui."
"Oh... capisco. Però... dottoressa..."
"Sì?"
"Quando arriva mio figlio?"