giovedì 28 febbraio 2013

Tecnologia, portami via

***ATTENZIONE: post a medio contenuto di nerditudine***

Devo confessarvi un segreto: nella mia famiglia, siamo tutti un po' malati di tecnologia.

Non fraintendetemi, non siamo quel genere di persone che cambia il cellulare ogni sei mesi in base alle mode del momento, o che butta via palate di soldi in scemenze all'ultimo grido. Anche perché, a onor del vero, se ci comportassimo così ci verrebbe ben presto a mancare la materia prima.

Sta di fatto che la tecnologia ci piace, seppur con moderazione. Suppongo che la ragione principale sia da ricercarsi nell'abitudine: quando sono nata io, uno dei primi giocattoli con cui ho pasticciato è stato il vecchio Spectrum di mio padre (lacrimuccia di commozione... chiedo scusa), mentre mio fratello è nato e cresciuto già nell'epoca del 486. Ricordo ancora il primo cellulare di mio padre, grosso più o meno come un citofono ma non altrettanto funzionale, e i videogiochi con cui sono cresciuta, dal vecchio Arkanoid al terribile Prince of Persia (mai - dico mai - riuscita a superare il terzo livello. Già da piccola non è che fossi furba).

La nostra passione è cresciuta con noi, evolvendosi nel rituale di famiglia di raccogliersi tutti attorno al fortunato possessore di un nuovo oggettino tecnologico e di osservare il suo primo avvio in religioso silenzio. (Mi rendo conto di essere appena stata ingiusta: in realtà, tre quarti di famiglia hanno creato ed onorato questo rituale, in quanto mia madre si è sempre rifiutata anche solo di imparare a programmare il videoregistratore, ed ha vissuto felice sino ad oggi.)

Il mito della mia infanzia!
Avendo ricevuto questo genere di educazione, rimango sempre abbastanza spiazzata dal disinteresse di molti miei coetanei (molti più di adesso, comunque) nei confronti della tecnologia. Non che non riesca a conviverci, sia chiaro: per fare un esempio, la mia dolce metà è tanto interessata al modello del suo cellulare quanto io lo sono alla marca del mio apriscatole, eppure ciò non mi impedisce di amarlo. Non è proprio una situazione alla Romeo e Giulietta, ecco.
Tuttavia, esiste anche un rovescio della medaglia: la mia (seppur minima) esperienza con computer e cellulari (dove per "esperienza" si intende "essere in grado di aprire il vano delle batterie senza chiamare un artificiere") mi ha reso, e mi rende tuttora, il bersaglio di parenti con minore dimestichezza, specie se un po' attempati. Se dovessi elencare tutte le volte in cui sono stata precettata per cambiare la cartuccia alla stampante di mia nonna, o per esaudire le richieste più bislacche da parte di mia suocera, non mi basterebbe un anno.

Ho elaborato una teoria al riguardo, e cioè che la giovane età pare svolgere un effetto estremamente rassicurante sulle persone un po' attempate, almeno per quanto riguarda la modernità. Per alcune persone, "giovane" equivale automaticamente ad "onnipotente", e l'equazione è tanto più forte quanto più la persona è digiuna di tecnologia. Con risultati talvolta esilaranti: per esempio, mia nonna è convinta che il binomio cellulare/numero di telefono sia assolutamente inscindibile, e non ho ancora avuto il coraggio di introdurla al meraviglioso mondo del cambio della SIM.

Signore e signori, mia nonna.
Questa equazione pare conservarsi anche sul posto di lavoro. Oddio, non è che ci siano tutte queste occasioni di interagire con la tecnologia, per la verità... lavoro in ospedale, in fondo, mica al MIT. Tuttavia, i miei vecchietti sembrano avere qualche difficoltà a gestire oggetti più tecnologici di un telecomando, per cui ogni tanto succedono delle situazioni abbastanza divertenti.

La più frequente, come potete immaginare, è l'eterno dilemma del cellulare. Il cellulare non funziona mai. In realtà, mi chiedo persino perché i parenti dei miei vecchietti si ostinino ad appioppargli questi oggetti per loro chiaramente incomprensibili... in fondo, se ci si pensa un attimo, la primaria funzione di un cellulare è di contattare una persona in situazioni d'emergenza, e questo dovrebbe automaticamente escludere i nostri nonnetti, per due ottime ragioni: 1) perché se qualcuno può avere un'emergenza, a rigor di logica, sono loro; 2) perché le infermiere hanno il numero di telefono dei parenti pronto per qualsiasi evenienza, non è che ti lasciano crepare il nonno e lo scopri dopo una settimana; 3) perché il nonno sta lì, nel suo letto, e se vuoi dirgli qualcosa puoi anche alzare le chiappe e venirglielo a dire, invece che stressarlo col cellulare. Oh, mi sono sfogata.

Comunque.

La conversazione tipo è sempre la stessa:
"Signorina, mi può aiutare? Non mi va il cellulare!"
Tentato esame del cellulare, fallito perché la cara signora (di solito è una donna, non so perché) lo sta sventolando come una dannata, forse nel tentativo di smolecolarizzarlo.
"Cara, in che senso non va? Che cos'ha?"
"Non telefona!" Ma dai, pensavo avesse tentato di fuggire sulle sue gambe. "Non ha più la carica."
"Beh, se mi dà il caricabatterie cerco di attaccarglielo alla corrente..."
"Il che?"
"Il carica... il cavo, signora. Il cavo che si attacca alla corrente."
"Ah, ma quello non ce l'ho. Ce l'ho a casa." Tentiamo in wifi? "Ma non è la corrente, è la carica!"
Rapida riorganizzazione delle idee. "Vuol dire il credito? I soldi?"
"Sì, non ci sono più i soldi. E ora come faccio?"
"Ehm... può dirlo a sua figlia, o alla badante, che le facciano una ricarica... se gli dà i soldi..."
"Ah, no, io a quella soldi non gliene do. E se li do a lei?"
"Gliene sarei molto grata, signora, ma non credo che risolverebbe il problema col suo cellulare..."

Crisi 2.0. Sfruttare l'"effetto nonni" è l'unica maniera per sopravvivere, ormai.

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